Tutte uguali, noi massaie! Tarantolate. La smania che ci pervade quando andiamo alla ricerca del gusto perduto è avviluppante come un polpo in amore . Di certo c’è che quando ho conosciuto Roberta, in occasione della Biennale del gusto di Venezia, mi ha subito stupito la sua intraprendenza, la voglia di condividere la passione per il cibo, la sua vivacità. Scrive per altri siti web, come il Cavolo Verde della mitica Laura Rangoni, e per il validissimo Taccuinistorici.it, è nonna e buona forchetta. Perfetta per scrivere di ricette d’antan: ha una preziosa collezione di foto della sua famiglia di quegli anni. Ed è veneta, come me.
E’ anche un’ottima occasione per iniziare a testare le ricette di altri giornali e periodici (sono un’accumulatrice seriale) di quei tempi. In questo caso si tratta de “Il Messaggero della Cucina“, del novembre 1937. Il giornale, quindicinale, nacque a Roma nel 1902 – e chiuse definitivamente nel 1941 – come supplemento de Il Messaggero, fin dall’inizio diretto dall’autorevolissimo chef Adolfo Giaquinto, già inventore del fortunato estratto di carne Excelsior, giornalista, scrittore di numerosi libri di ricette, ma sopratutto zio dell’intramontabile Ada Boni, nata Giaquinto, famosa ancora oggi per il suo “Talismano della felicità“, avete presente, no!? Una famiglia culinariamente interessante. Adolfo Giacquinto morì nel 1937 e la direzione passò a Cesare Aldani, giornalista gastronomo e scrittore di ricettari. Il giornale è meno glamour e civettuolo de La cucina italiana, forse indirizzato al mondo della ristorazione professionale. Accolse ricette e consigli dei più prestigiosi cuochi internazionali e nazionali, da Escoffier al nostro amato Amedeo Pettini.
Adoro il sottotitolo.
Samanta
Curiosa questa ricetta del 1937! Pubblicata nel numero di novembre del Messaggero della Cucina ci suggerisce una preparazione che non è quello che sembra. In quel periodo storico l’Italia era nel pieno delle sanzioni economiche a causa della guerra in Etiopia e all’occupazione della Libia. Risparmiare era un dovere più che una scelta. Non era raro che si dovesse sostituire un ingrediente difficile da trovare o troppo costoso con un altro più comune. Un famoso esempio è il piatto veneto “Osei scapà”, spiedini di pancetta, fettine di lonza e salvia. Alla domanda: “E gli uccellini?” “ Ah, quelli sono scappati!” era la risposta.
La caccia era praticata dai nobili nelle grandi riserve e dai signorotti di campagna nei loro poderi, non solo per riempire di cose buone gli spiedi e le casseruole di rame. Era anche un segno di distinzione e di orgoglio tornare a casa con i carnieri gonfi di prede. E quelli che non avevano né terre, né denaro? Beh, quelli potevano soltanto cacciare nei boschi e lungo i canneti dei fiumi. Per assurdo coloro che ne avevano veramente bisogno per sopravvivere erano considerati bracconieri e puniti di conseguenza. Cacciavano di notte badando bene a non esibire il frutto della loro abilità venatoria. In città, infine, la selvaggina era considerata un vero lusso, riservata alle occasioni davvero importanti.
E cosa c’è di più importante di un matrimonio?
L’8 Gennaio 1930, per le nozze principesche di Umberto e Maria Josè di Savoia, dopo le Uova alla Montebello e l’ aligusta con salsa tartara fu servito “Fagiano allo spiedo con crescioni”. Molto probabile che il raffinato gallinaceo provenisse dalla tenuta di caccia di Venaria Reale, a pochi chilometri da Torino. Segno che la selvaggina era considerata un cibo da Re!
I principi erano splendidi, belli e invidiati, ma sempre con un velo di malinconia negli occhi.
La figura di Maria Josè di Savoia mi ha sempre affascinato. Fin da piccola mio padre, aviere montatore in Libia, mi parlava di lei. Lui era partito giovanissimo per l’Africa ed era lì, nel 1935, quando la principessa andò in visita al campo dove prestava servizio.
Mi mostrava tre piccole foto nelle quali, a malapena , si distingueva quella che sarebbe diventata la Regina di maggio; tra le palme attorniata dagli ufficiali in divisa bianca, all’uscita da un tucul o sulle rive di un lago, la principessa di Piemonte manteneva sempre quell’aspetto elegante che mai avrebbe perduto, neppure nei momenti difficili e tragici della guerra e dell’esilio.
Qui e qui le immagini del loro viaggio a Tripoli nel 1935, dall’archivio dell’Istituto Luce.
Ma torniamo alla nostra ricetta. Secondo Aristotele la parola “essenza” indica “ciò che una cosa non può non essere e senza di cui una cosa non può esistere.” Quindi se la selvaggina non c’è, non può esserci nemmeno la sua essenza. Difficile risolvere questa apparente contraddizione!
Il vocabolario ci viene in aiuto. Essenza è anche sostanza volatile, di odore acuto, estratta da piante e fiori. E la forma? Se è l’involucro esteriore della sostanza, non è solo apparenza. E il sapore, la consistenza, il colore? Anche questi sono l’essenza di un alimento? Sì, credo proprio di sì.
Ricapitoliamo, dunque.
Le erbe e le spezie, le stesse che si usano per la selvaggina, sono il profumo.
La forma e il colore sono quelli di uno spezzatino di cervo o di uno stracotto di cinghiale.
La consistenza della cacciagione è frutto di una lunga frollatura. A quei tempi, in mancanza di frigoriferi, gli animali venivano appesi per giorni e giorni alle travi delle cantine, così le loro carni diventavano tenerissime, molto simili alla morbidezza delle frattaglie. A dir la verità erano molto vicine alla decomposizione, ma allora piaceva così!
E il sapore? Avete presente la lepre in salmì? Tra gli ingredienti non può mancare il suo fegato che rende l’intingolo piuttosto denso e cremoso e dal gusto dolce, proprio come i fegatini di pollo.
Ecco allora risolto il mistero del presunto conflitto gastronomico.
Adesso abbiamo tutti gli elementi per dire che l’essenza della selvaggina può esistere anche senza la selvaggina. È stata dura, ma ce l’ho fatta. Vi sembra cervellotico come ragionamento? Può darsi, ma è, ve lo assicuro, l’unico possibile.
Ecco la ricetta originale: è breve, asciutta, senza pesi e tempi di cottura, “essenziale”, appunto. Niente di più di ciò che basta. Tutto il resto è affidato alla sensibilità della massaia e anche alle possibilità economiche della famiglia.
Noi l’abbiamo provata e queste sono gli ingredienti e le dosi per 4 persone
Farina di mais per polenta grammi 200
Acqua 1 litro
sale grosso 1 cucchiaio
burro grammi 100
3 foglie di salvia
un rametto di rosmarino
5 grani di ginepro schiacciati
300 grammi di fegatini di pollo privati di grasso e nervetti
sale, pepe
Preparare la polenta versando a pioggia la farina nell’acqua bollente salata. Mescolare con la frusta per evitare la formazione di grumi. Cuocere a fuoco sostenuto per almeno 30 minuti. Ci sono due scuole di pensiero; una dice che bisogna mescolare continuamente, l’altra che la polenta sarà più gustosa se la lascerete tranquilla limitandovi a staccarla dalle pareti ogni tanto con la mescola di legno. Io ho sposato la seconda versione, perché mi permette di fare dell’altro mentre si cuoce e perché, effettivamente, acquista un sapore e un profumo più decisi. Usate preferibilmente un paiolo di rame, ma anche l’antiaderente va bene. È più semplice da pulire e la crosticina che si forma è così croccante e facile da staccare! Lasciata asciugare sulla piastra della cucina economica o sulla bistecchiera di ghisa e spezzettata può considerarsi l’antenata dei crostini di mais. Deliziosa!Provare per credere.
Con questa proporzione di acqua e farina otterrete una polenta morbida, come piace adesso, ma quell’indicazione”in blocco” fa intendere che a quel tempo si preferisse una consistenza più compatta. Se la preferite così aumentate la quantità a 300 grammi per litro.
Fate sciogliere il burro in una padella senza farlo bruciare. Aromatizzatelo con la salvia, il rosmarino e le bacche di ginepro schiacciate, salate e quindi unite i fegatini tagliati a pezzetti. Fateli insaporire per 4-5 minuti, a fiamma bassa. La consistenza deve essere morbida e il fondo di cottura denso e saporito.
Versate la polenta nel piatto. Fate un incavo al centro e versate l’intingolo preparato.
È un secondo piacevole e servito in dosi più piccole può essere un antipasto originale. Certo, se non vi piace il fegato, la faccenda si fa complicata. Il nostro autore, Cesare Aldani, gastronomo e direttore del Messaggero della Cucina, ci suggerisce un’alternativa: “con queste erbe si possono far soffriggere delle listarelle di carne avanzata”. Il massimo dell’arte del riciclo, non solo non c’è la selvaggina, ma neppure qualcosa che le somigli!
Roberta Libero