Marmellata di popone mi fa ridere, suona buffo come Latte di ananasso o Stracciatella policlinico (una minestrina del ’43). Non c’è una regola precisa, i nomi di certe ricette mi fan sorridere e subito dopo mi viene lo spasmo di cucinarli. Presa da raptus archeo-culinario-mangereccio. parlotto da sola mentre penso agli ingredienti da reperire, alla sua “edibilità” o alla temperatura del forno da indovinare. N’invasata. Per non parlare dell’estasi massaica quando incrocio piatti con nomi tipo Finto fegato alla Camandolese o Piccadindio, Lepre alla D’Annunzio o Rotolo dei poeti, Vivanda italianissima, Sformato autarchico, Bomba Marinetti, Biscotti sanzionistici… Tronfia, parto alla ricerca del gusto perduto.
E’ ufficialmente una fissazione, me lo dice anche la mia amica Anna. Come la “Sindrome di Stendhal”, ma nella versione “della massaia moderna” dove vertigini e tachicardia sono causate da fantasiose e pesantissime ricette di Amedeo Pettini, non dai capolavori di Tiziano o di Michelangelo.
Ad ognuno la sua arte, senza vergogna.
Per la Marmellata di popone è stato come aprire un varco spazio-temporale ed essere catapultata nella cucina anni ’30 dell’abbonata Armida Piron (“piròn” in dialetto veneto significa forchetta…) di Strà, a pochi chilometri dalla splendida Venessia, lungo la meravigliosa Riviera del Brenta, famosa per le sua bellezze paesaggistiche e storiche, per le spettacolari ville venete (a Strà c’è la stràordinaria Villa Pisani dove si incontrarono Hitler e Mussolini, nel 1934) e per la “mala” omonima (erano gli anni ’60).
Visto il periodo storico, magari l’Armida (mi) era una massaia rurale (non di certo una contadina), una di quelle del raduno di Piazza San Marco a Venezia giusto un anno prima… Chissà com’era la sua casa (guardate qui per farvene una vaga idea), e la sua giornata. E chissà che dubbi poteva avere a riguardo della marmellata di popone per chiedere a Frida, la curatrice della seguitissima rubrica “L’ABC della cucina” -che prevedeva risposte competenti alle domande cucinerecce delle lettrici- chiarimenti in proposito.
Se vi intessa sapere chi erano le “massaie rurali” eccovi un’ottima spiegazione”
Le associazioni femminili fasciste (Fasci Femminili,Piccole (8/14 anni) e Giovani Italiane (4/17 anni), dipendenti dall’Opera Nazionale Balilla, e Massaie Rurali, costituite da donne che risiedevano in Comuni a carattere rurale o che appartenevano a famiglie di proprietari terrieri, coltivatori diretti, coloni, mezzadri, con lo scopo di promuovere l’educazione e l’istruzione delle donne della campagna, di incrementare l’autarchia economica, di favorire l’allevamento igienico della prole) erano organismi nuovi, ma poco vitali, la cui funzione principale stava nel valorizzare le virtù domestiche della donna, nel ribadirne l’immagine tradizionale di “angelo del focolare” diffusa attraverso la stampa, la letteratura fascista ed i testi per la scuola. I Fasci Femminili (il primo fu costituito a Monza il 12 maggio del 1920 da Elisa Savoia) erano composti da donne italiane di sicura fede fascista e buona condotta morale che avessero compiuto il ventunesimo anno di età.
L’organo centrale era la Consulta, presieduta dal segretario del Partito e composta dalle ispettrici nazionali, dalla ispettrice della Gil, dei Guf, dal vice segretario del Partito, dall’ispettore del Partito per i Fasci Femminili e dalla Commissaria nazionale dell’Associazione Donne Artiste e Laureate. Il suo compito era indirizzare e coordinare tutta l’attività delle organizzazioni femminili del Partito. Il Fascio Femminile era istituito presso ciascun Fascio di Combattimento ed era retto da una segretaria. Quelli provinciali erano inquadrati nelle Federazioni di provincia, rette da Fiduciarie nominate dal segretario del Partito.
Questa che vedete sotto è una fotografia trovata nel numero di gennaio del 1937 con la delegazione delle massaie rurali di Terni
“Si, ma cos’è sto popone?”, si chiederanno spazientite le under 50 con origini non toscane… ehm, senza aver notato le enormi foto che accompagnano il post. Ebbene, è il desueto nome del melone, ancora in uso, per l’appunto, in Toscana, come ci spiega la Treccani.
Ignoravo che il melone avesse mutato definitivamente il nome negli ultimi 100 anni, e ammetto che l’unica marmellata che viene consumata regolarmente in casa mia è quella di arance -che faccio io-, amarognola, ottima anche per quel dolce estivo che mi ha insegnato la madre di un’amica salentina: ricotta mista (non di produzione industriale, please), pinoli, uvetta, polvere di cannella e marmellata d’arance. Una mischiatina rapida e il dolce è fatto, si mangia così, a cucchiaiate.
Non amo le marmellate esageratamente dolci, quelle da 1 kg di frutta e 1 kg di zucchero. Ero però incuriosita dal profumo che avrebbe potuto diffondere, l’idea di mettere in barattolo l’estate e i suoi sapori mi ha romanticamente convinto a provarla. E’ davvero una bomba per pane-burro-marmellata a colazione o merenda, come ripieno di crostate o biscottini di pasta frolla o, come ho provato a fare io -visto che l’avevo preparata per una festa -, come sottile guarnizione per una bella cheese-cake.
Di fianco alla ricetta in questione, come potete vedere nella foto sottostante, trovate anche la ricettina della freschissima Gelatina di cocomero e dell’audace e grassa Schiuma di prosciutto. Io non ho avuto il coraggio di affrontare tutta quella panna, ma se ci doveste provare, fatele una foto, per cortesia.