Di nuovo a ritroso nel tempo, indietro di cent’anni per la nostra (lenta) ricerca del gusto perduto. E’ patriotticamente doveroso per un blog di archeologia culinaria ricordare, in forma di ricetta, quanto accaduto ai tempi della Grande Guerra. Questa è solo la prima, sarò sintetica (aiutata da utili link per approfondire l’argomento), anche perché si tratta di un periodo difficile, complicato, lontano. Non all’altezza di una semplice cuciniera.
La scintilla che diede l’avvio al conflitto ha una data e un luogo precisi: il 28 luglio 1914 a Sarajevo. A seguito dell’assassinio dell’Arciduca d’Austria-Ungheria Francesco Ferdinando, l’Impero austro-ungarico dichiarò guerra al Regno di Serbia. L’Italia entrò ufficialmente in guerra il 24 maggio 1915 accanto alla Triplice Alleanza. Morirono 250.000 soldati italiani solo nel primo anno di guerra. Una carneficina.
Per celebrare il centenario sono previsti un buon numero di eventi, mamma Rai ha programmato speciali sulla Grande Guerra e approntato un sito davvero interessante che raccoglie info e materiale video.
Io mi sono limitata, per il momento, a fare una visita alla Biblioteca Braidense di Milano per dare un’occhiata alla Rivista Italiana d’Arte Culinaria, periodico del Circolo Gastronomico milanese dal 1905 al 1914, per avere uno spaccato sulle ricette proposte in quel periodo.
LA RIVISTA ITALIANA DI ARTE CULINARIA
Ho scelto la ricetta di Cadorna per l’importanza del suo ruolo nella WW1 e perché, ahimè!, i numeri del giornale a disposizione della biblioteca Braidense arrivano solo fino alla fine del 1913. Da quanto ne so, la pubblicazione proseguì fino alla metà del ’14. Pazienza, me ne farò una ragione. E’ utile comunque per capirne i contorni (storici, sociali, mica quelli da mangiare).
Come si può leggere nel sito della straordinaria biblioteca digitale dell’Academia Barilla, la rivista fu fondata nel lontano 1905 come organo ufficiale del Circolo Gastronomico, associazione di cucinieri milanesi, diretta in quel periodo da Giuseppe Ciocca, pasticciere bergamasco famoso per il bellissimo “Il pasticcere e confettiere moderno” (che potete sfogliare qui).
Agli esordi, la Rivista era dedicata a cuochi, professionisti del settore o palati fini, ma con l’andar del tempo si aprì anche al mondo delle massaie. Massaie ricche, ovviamente, perché l’andazzo generale, a quel tempo e per la stragrande maggioranza della popolazione era molto vicino alla miseria, sia in campagna che nelle città, con grandi difficoltà a mettere assieme il pranzo con la cena. Per pochi eletti, dunque, si aprivano la porte del paradiso del gusto, della varietà dei sapori e ingredienti, della sazietà.
In questo bell’articolo si può capire meglio la tragica condizione di vita d’allora, quando si moriva ancora di pellagra, quando la paga di un anno per un muratore era di 1000 lire, 6000 o più per un impiegato di fascia alta, commercianti o insegnanti (vedi un po’ come cambiano le cose…) e non pervenuta per i contadini e braccianti.
Ritornando alla Rivista, vantava nomi altisonanti fra i collaboratori e redattori, a partire dal mio adorato, onnipresente e sempreverde Amedeo Pettini.
Si, lui! Anche qui! Nel ’13 aveva 52 anni, ancora in servizio come cuoco del Re e con all’attivo già qualche libro.
Fra i collaboratori della rivista spicca anche Maria Dall’Olio, unica donna presente. Come scrive Stefania Barzini sul suo nuovo, splendido libro “Fornelli d’Italia” (Mondadori), la Dall’Olio proponeva ricette più salutari e moderne rispetto alle colleghe autrici del tempo, scrisse per numerose riviste e pubblicazioni – dall’Almanacco Italiano alla Scena illustrata e sul Messaggero della cucina ed è stata “l’unica signora dei fornelli che verrà apprezzata fino in fondo dagli uomini, diventando socio onorario delle maggiori società di mutuo soccorso fra cucinieri”.
“ALLA CADORNA”
Di sicuro questa ricetta non l’ha scritta Pettini: così povera di spiegazioni, di particolari, di ingredienti, nessun guizzo o crocco o buzzo o marinatura… Buona, quello sì, ma scarna di contenuti e aneddoti, come invece era solito fare l’Amedeo.
Ma quel “alla Cadorna” lascia intendere, pone quesiti.
L’hanno chiamata così perché il generalissimo era un carnivoro convinto e pretendeva arrosti e verdurine di stagione prima di ogni decisione strategica (meno probabile che amasse cucinarlo)? E ancor prima, a quale Cadorna si riferivano? Al rigidissimo generalissimo Luigi o a Raffaele? E se fosse Raffaele, il figlio o il padre? E perchè non lo zio Carlo? Una famiglia impegnativa, tutti divisi fra politica ed esercito.
Di sicuro, vista la loro posizione sociale, tutti loro mangiavano bene e sempre.
Bòn, diamo per buona l’ipotesi che si riferissero a Luigi, che in quel settembre 1913, a 63 anni, veniva nominato senatore dopo una lunghissima e altalenante carriera nell’esercito, che lo portò a diventare Capo di stato maggiore nel 1914, alla vigilia dell’inizio della guerra.
In quell’anno il re era Vittorio Emanuele III e il presidente del consiglio Giovanni Giolitti, impegnati con la guerra in Libia e una situazione internazionale a dir poco scoppiettante.
Cadorna non era amato né stimato, a quanto pare. Il suo modo di agire e le sue devastanti (non per il nemico…) strategie di attacco provocarono una carneficina di soldati italiani e lo accompagnarono fino alla Disfatta di Caporetto (1917), quando fu costretto a lasciare il comando ad Armando Diaz. Uno smacco mica da ridere…
Un personaggio diversamente importante e, col senno di poi, non proprio un genio dell’arte della guerra. Spregevole al punto da tentare di far ricadere sui soldati le colpe di quanto successo, tacciati di viltà e incapacità.
Tutto questo si riflette, forse, sulla ricetta della spalla di vitello alla C.
Un buon arrosto, niente di più. Carne succulenta e tenera.
Caro, perché quel taglio di carne mi è costato 16 euro e lo abbiamo mangiato in due (io e l’adolescente, quello che in casa viene chiamato “il divoratore”). Visto il costo, ho preferito sfruttarla al meglio e, stranamente noncurante di quanto riportato dalla ricetta, l’ho fatta marinare una notte intera con timo, pepe, sale, vino bianco, paprika, olio.
Ho preparato poi il brodo che serve durante la cottura con cipolla rossa, zucchina, sedano, carota, gambi di prezzemolo, bacche di ginepro e chiodo di garofano.
Ho usato una fetta spessa di buon prosciutto.
Si, ho usato il burro e ho fatto benone.
L’ho rosolato ben bene e cotto in pentola per un paio d’ore, piano piano, bagnandolo a dovere con il brodo caldo, ingannando l’attesa a suon di fotografie dell’epoca scovate in rete.
Scopro così, fra trincee e cannoni, la bellezza delle famose, angoscianti e vuotissime Piazze d’Italia di De Chirico (l’agorà per i greci antichi era il centro economico e politico della polis, luogo di ritrovo e assemblee, il centro nevralgico della democrazia) e un libro che ho tanto amato, La morte a Venezia di Thomas Mann, pubblicato proprio nel 1913.
Un concentrato di angoscia, metafore, bellezza, amore e odio, violenza e ingenuità.
E’ troppo in una volta sola. Il buon bicchiere di Lagrein trentino mi ha aiutata a sopportarne il peso e, finita la cena, a pulire il palato.
Fortunatamente l’arrosto è pronto. Ho filtrato e fatto un po’ restringere il sughetto, servito con pomodorini, carotine confit e un paio di adorati asparagi cotti a vapore, oliati e salati.
Il risultato è davvero una bomba.
… e anche stavolta, non certo per merito di C.
S.