A Milano e Verona, il culaccio è chiamato “scamone”, “cima” a Venezia, “groppa” a Firenze, “straculo” a Mantova, “codata” a Messina. Il culaccio è chiamato culaccio a L’Aquila e Trento, almeno secondo questo link.
Segnatevelo, prima che anche il vostro macellaio cominci a guardarvi in modo strano, tra l’interdetto e il compassionevole, con quel sorrisino sornione di chi ti ha già da tempo catalogato come C.R.V.R.: cliente rompiballe e vagamente rimbecillita.
Che già l’altra volta, quella in cui gli chiesi “una bella giovine pollastra” per il Pollo alla Lyda Borelli, ero sembrata un po’ strana.
L’espressione ebete e assente mi viene quando mi cimento in una ricetta complessa. Penso e ripenso ai vari passaggi e alle possibili interpretazioni di un testo scritto più di 100 anni fa. Vado in sbattimento nel tentativo di non sbagliare, nel compito di seguire pedissequamente lo spartito originale e lo spirito del piatto. Aspiro al gusto primigenio.
Mi diverto così. 🙂
Gran parte delle 5000 ricette contenute nei due volumi de “L’arte cucinaria in Italia.Trattato teorico pratico e dimostrativo della cucina italiana e delle principali straniere applicabile a qualsiasi servizio sia per cucina di lusso che per quelle d’albergo e di famiglia” sono piuttosto difficili ed elaborate da realizzare per una massaia semplice, per una non professionista come me.
I due preziosi e voluminosi ricettari, indirizzati a cuochi professionisti e gourmand, datati 1910-1911 e pubblicati dal Circolo gastronomico milanese, furono curati da Alberto Cougnet con la collaborazione di stimatissimi professionisti del settore, come il nostro adorato capo cuoco del Re, Amedeo Pettini, o il pasticciere trevigliese Giuseppe Ciocca, famoso per il manuale Il pasticciere e confettiere moderno edito da Hoepli.
Come spiega l‘Academia Barilla, “L‘arte cucinaria in Italia fu il primo trattato di gastronomia ottocentesco libero dalla terminologia francese, scritto in linguaggio originale e moderno”.
Di sicuro, però, i piatto proposti risentivano ancora molto delle tecniche e mode d’oltralpe, che fino ad allora aveva dettato legge anche nelle grandi cucine del Belpaese.
Salse e salsine, lunghe cotture, fondi bruni, glasse e chiarificazioni e grassi animali stracotti. Pesantezza. Impiattamenti impattanti.
Una vera sfida (e non ne sono quasi mai all’altezza).
Qui sotto potete vedere un paio di disegni di ricette tratte dal volume del 1910: i filetti di pollo alla Villoresi e lo Storione alla Lepanto.
Per come la vedo io, Alberto Cougnet e compagni si divertivano non poco a trovare i nomi più consoni per le ricette onomastiche contenute nei due ricettari, usando anche una certa dose di ironia e sfottò.
E’ una mia supposizione, non una certezza.
Prendete, per esempio, le Scatolette di cetrioli alla Duse del 1910: lo noto solo io il doppio senso a sfondo sessual-erotico?
La Duse, D’annunzio e la loro travagliata/passionale/bistrattata storia d’amor, le stranezze del Vate, il cetriolo…
E il culaccio con gelatina alla Caruso non potrebbe essere una poco rispettosa (ma assai fine) presa per il culaccio i fondelli del famosissimo cantante (che in quel 1911 era in tournée a New York, diretto da Toscanini)? A giudicare dalle foto, il nostro tenorone non era proprio in forma…
Enrico Caruso era una buona forchetta e un cuoco provetto, così si racconta. Ho trovato numerose ricette dedicate a Caruso (e anche un cocktail) o a lui stesso attribuite, in svariati ricettari e riviste dei primi 40 anni del ‘900 e tanti sono gli aneddoti che svelano l’attitudine del tenore per il buon cibo e l’inebriante vino.
Nacque a Napoli nel 1873 e vi morì nel 1921, a soli 58 anni, dopo aver mietuto successi in ogni dove,dall’America alla Russia, grazie al suo particolare timbro vocale. Nel 1902, al Grand Hotel Et de Milan a Milano, fu il primo cantante ad incidere un disco a matrice piatta (78 giri), lo fece per la casa discografica inglese Gramophone & Typewriter Company, ottenendo un successo clamoroso.
Ascoltate, non vi vengono i brividi?
Per raccontarvi in breve il rapporto di Caruso con la cucina, trovo esauriente e stringata il giusto questa spiegazione che ho trovato sul sito del Grand Hotel Vesuvio di Napoli, lo spettacolare albergo dove Caruso soggiornava quando tornava nella sua Napoli. E dove morì.
Un’altra grande debolezza di Caruso era quella per la cucina, soprattutto quella napoletana. Si compiaceva , infatti, di aiutare a far trasferire a New York i più bravi pizzaioli e cuochi napoletani dando loro una mano a mettere su un esercizio nella “Little Italy”, con la speranza di ricreare un angolo della sua amata Partenope. Divennero così famosi i maccheroni della Costiera Amalfitana, la pasta di Gragnano, Torre Annunziata e Torre del Greco, e lo stesso avvenne per l’olio extravergine dei colli di Sorrento e per i pomodori S.Marzano. Questi prodotti cominciarono ad invadere il mercato americano, per cui l’opera del tenore fu meritoria in quanto promotrice di vari contratti commerciali, tanto che oggi, si può affermare che Enrico Caruso fu il più celebre ambasciatore della nostra gastronomia regionale. La passione per la cucina era affiancata dalla sua abilità di cuoco: era solito infatti cimentarsi nelle cucine dei vari ristoranti italiani di Brooklyn o invitare gli amici nella sua grande villa per dar prova delle sue capacità culinarie, incoraggiato dall’applauso della sua corte. Con una punta di falsa modestia, egli così sentenziava:
” Dite di me che sono un modesto tenore, ma non mi dite che sono un cattivo cuoco!”. Il piatto che riusciva ad entusiasmare soprattutto i suoi amici italo-americani erano i “Bucatini alla Caruso”.
Se vi interessa, esiste anche il museo Enrico Caruso nella magnifica Villa Bellosguardo a Lastra a Signa in provincia di Firenze.
LA RICETTA
Non ho fatto altro che seguire la ricetta. Ho girato Milano per comprare il lardellatore e ho pazientemente lardellato il kilo e 2 di carne con lardo e carote rosse (trovate da Eataly ad un prezzo accettabile). Il cetriolo prelessato. Parliamone. Io l’ho prelessato e lasciato raffreddare. E’ passato di là mio marito, l’ha tastato, ha pensato fosse da buttare e l’ha buttato. Quindi niente cetriolo.
L’ho accompagnata con insalatina di carote e sesamo e la salsa tartara (come da ricetta).
La carne, dopo 5 ore di cottura, era decisamente tenera e buona. Non amo la gelatina e la preparazione del piatto è stata piuttosto lunga e macchinosa, ma la soddisfazione di averci provato me l’ha fatto sembrare un piatto delizioso.